Dall'esportazione all'investimento diretto all'estero

L’attività di esportazione e l’investimento all’estero (produzione e vendita di beni all’estero, IDE o FDI, dall’inglese Foreign Direct Investment) sono le due facce, spesso consequenziali, del processo d’internazionalizzazione di un’azienda.

Internazionalizzarsi, espandersi sui mercati esteri (sia quindi attraverso l’attività di esportazione che tramite investimenti diretti) è un percorso strategico che può essere letto come: (i) l’aumento delle proprie quote di mercato o l’acquisizione di nuove aree di vendita (e come conseguenza l’aumento della propria redditività), (ii) l’ottimizzazione del proprio posizionamento competitivo (facendo tesoro di esperienze, competenze e risorse acquisite all’estero e utilizzabili poi anche sul mercato domestico) e (iii) la diversificazione dei rischi commerciali.

A livello globale, la crescita dei flussi e l’aumento degli stock di investimenti diretti esteri hanno mostrato tassi medi annui superiori a quello delle esportazioni globali beneficiando: (i) di una crescente liberalizzazione degli scambi commerciali e degli investimenti internazionali, (ii) dell’apertura di economie domestiche e di deregulations, (iii) dei progressi tecnologici e della riduzione dei costi di trasporto e di comunicazione e (iv) della diffusione di procedure e strumenti standardizzati nel trasferimento delle merci e dei dati (informatica e telco). (Italian Trade Agency, 2018).

Mentre l’Italia continua a mantenere un ruolo di rilevo come paese esportatore (il 7.mo al mondo su dati 2016), è un dato di fatto che, nonostante una ripresa dei flussi di IDE a partire dal 2013, il grado di internazionalizzazione “pesante” dell’Italia continua purtroppo a rimanere ben inferiore a quello dei partners europei. 

Nella tabella sottostante è infatti possibile notare come sia molto più marcata la differenza tra Italia e Unione europea nell’incidenza – in percentuale – degli IDE sul PIL del paese, rispetto all’incidenza delle esportazioni sullo stesso dato.

Partendo quindi dall’importanza strategica di riuscire a bilanciare internazionalizzazione commerciale (export) e quella produttiva (IDE), non sempre una strategia aziendale orientata esclusivamente alla semplice esportazione di prodotti e servizi può rilevarsi vincente. Spesso infatti esportare in un determinato mercato, senza avere strutture produttive in loco, può rivelarsi eccessivamente oneroso, considerati i costi di trasporto, la presenza di barriere tariffarie e la necessità di entrare e consolidarsi dal punto di vista commerciale in quel mercato.

Per alcune imprese, specie quelle che hanno rapporti consolidati con clienti esteri o che fanno parte di una filiera produttiva che come azienda capofila ha una multinazionale con insediamenti produttivi fuori dall’Italia, diventa più conveniente procedere sulla strada degli investimenti diretti all’estero.

Molti investimenti diretti all’estero di PMI italiane nascono proprio con l’esigenza di seguire l’impresa cliente all’estero, al fine di rendere efficiente la catena di distribuzione.

Ma non tutte le aziende che appartengono a una filiera produttiva transnazionale hanno convenienza a investire direttamente all’estero. Cruciale in questo senso è la dimensione d’impresa, che può sì crescere a seguito dell’IDE, ma che nel contempo deve essere sufficiente a supportare lo sforzo organizzativo e finanziario richiesto.

Non bisogna ovviamente dimenticare che la dimensione d’impresa è un concetto piuttosto relativo, che va pesato sulla base del settore di riferimento dell’impresa considerata. Per fare un esempio pratico, un’impresa manifatturiera con 50 addetti, soprattutto in ambito produttivo, difficilmente disporrà delle risorse organizzative per la realizzazione di un investimento greenfield – ovvero in un'area non precedentemente utilizzata – all’estero.

Al contrario, una società d’ingegneria con 50 collaboratori può già essere considerata di dimensioni elevate, e può dunque disporre dei requisiti necessari per aprire una succursale fuori dai confini nazionali.

Per questo motivo, già a partire dal programma d’investimento all’estero, la dimensione d’impresa si situa solitamente in una fascia che prevede tra i 40 e i 50 milioni di giro d’affari e più di 100 addetti in italia.

Esistono poi alcuni casi – anche se relativamente pochi – in cui imprese più piccole sono in grado di presentare un progetto di investimento all’estero credibile, anche se la possibilità di crescere all’estero richiede tendenzialmente un apprendistato in termini di internazionalizzazione “leggera” senza il quale mancherebbero basi adeguate.

Partendo da questo assunto, la prevalenza della piccola dimensione d’impresa nel sistema produttivo italiano sembrerebbe costituire uno dei motivi per cui il ricorso all’IDE rimane per ora strutturalmente inferiore alla media di molti altri paesi europei.